Oggi parliamo della mitica Magic Formula ideata da Joel Greenblatt e cerchiamo come sempre di analizzarla con spirito critico, superando come sempre il principio di autorità.
Partiamo con il capire chi è Greenblatt e da dove spunta fuori la sua Magic Formula.
Joel Greenblatt nasce nel 1957 a Great Neck, New York. Nel 1985 fonda con 7 milioni in prestito Gotham Capital, il suo primo fondo.
Registra performance del 30% medio annuo al netto delle commissioni fino al 1995. Dal 1995 il fondo è chiuso a investitori esterni e in sostanza Greenblatt ha continuato a spippolare con fondi vari fino ad oggi.
Ha anche aiutato Michael Burry ad aprire il suo Scion Capital nel 2000. Poi litigheranno e Greenblatt farà causa a Burry perché quel mattacchione a partire dal 2006 ha iniziato a scommettere pesantemente sul crollo del mercato immobiliare.
Già nei primi anni ’80, Greenblatt scrive un articolo che ha fatto al storia: “How the small investor can beat the market”, ovvero come i piccoli investitori possono battere il mercato.
L’articolo è in seguito diventato un libro e ora svisceriamo bene questa fantomatica Magic Formula.
Greenblatt in circa 100 pagine riesce a descrivere con estrema chiarezza il suo metodo d’investimento, basato su due cose per lui cruciali: prezzo e profittabilità.
Piccola premessa: Greenblatt si definisce value investor, ovvero investe sul valore di un’azienda. Ha un approccio basato sui fondamentali e punta a spremere il massimo rendimento da quel meraviglioso strumento che sono le azioni.
L’esempio che fa è molto semplice: ci sono Franco e Ugo che hanno 2 negozi di caramelle nella stessa città.
Ora prendiamo 3 valori fondamentali che ci permetteranno di giudicare le due realtà e di capire qual è la migliore (poi capiremo cosa vuol dire “migliore”).
Vendite: totale delle vendite in un anno.
Valore negozio: cioè il totale di tutto ciò che è collegato al negozio (muri, caramelle, casse, camion, scaffali, brevetto per una caramelle nuova, contratti con fornitori ecc).
Prezzo azione: ovvero il prezzo sul mercato a cui si può comprare il negozio. In questo caso parliamo di azioni quindi ipotizziamo siano entrambi quotati in borsa. Quindi il prezzo che intendiamo è della singola azione (ovvero una piccolissima porzione del totale).
Franco e Ugo, dicevamo.
Primo esempio:
Tra i due negozi quale azioni preferiresti comprare? Ovvero, quale secondo te ha maggiore probabilità di aumentare di prezzo nei prossimi mesi? (Giusto? È la domanda corretta, vero? Io compro un’azione perché spero salirà in futuro.)
In questo esempio, sia prezzo dell’azione che valore del negozio sono uguali: cambiano solo le vendite.
Stiamo in sostanza dicendo che a parità di “asset” (negozio e tutto ciò che c’è dentro), Ugo vende 300.000€ in più di Franco.
Non sappiamo perché, però noi potremmo comprare un’azione di un’azienda che fa 400.000€ di vendite all’anno allo stesso prezzo di un’azienda che fa 100.000€ di vendite all’anno (a parità di valore del negozio).
Insomma, l’affare è evidente.
In questo confronto le azioni dell’azienda di Ugo sono sottovalutate e quindi meritano la nostra attenzione.
Secondo esempio:
In questo esempio il prezzo delle azioni è ancora uguale, così come anche le vendite.
Cosa cambia? Il valore del negozio, ovvero il valore dell’asset.
Franco con 100.000€ di asset riesce a generare 100.000€ di vendite, Ugo con 50.000€ riesce a generare 100.000€ di vendite. A parità di prezzo delle azioni, il negozio di Ugo è più profittevole.
Questo perché genera un rapporto Vendite/Asset migliore di quello di Franco.
Si può dire che Ugo è un manager migliore di Franco perché ha un negozio più redditizio.
Ultimo esempio:
Vendite: Franco 200.000€, Ugo 200.000€
Valore negozio: Franco 100.000€, Ugo 100.000€
Prezzo azione: Franco 50€, Ugo 5€.
Vendite e valore del negozio (asset) uguale. Questa volta cambia il prezzo.
Entrambi i negozi hanno un’uguale capacità di generare vendite dagli asset a disposizione. Stavolta cambia il prezzo dell’azione: dovrei sborsare 10 volte tanto per le azioni del negozio di Franco.
A confronto, è meglio l’azienda di Ugo perché a parità di redditività è più economica.
Chiaro il principio?
Greenblatt usa due numeri per descrivere se il prezzo è sottovalutato e se l’azienda è redditizia: P/E e ROA.
Il primo è il famosissimo Price to Earning Ratio, ovvero prezzo fratto vendite. Semplice, immediato, comprensibile. Esprime il valore di un’azienda.
Il secondo è il Return on Asset, ovvero Utile netto fratto totale degli asset.
L’utile netto è calcolato come le vendite meno il costo delle merci vendute, le spese di vendita, generali e amministrative, le spese operative, l’ammortamento, gli interessi, le tasse e altre spese. È un numero utile per gli investitori per valutare quanto le entrate superano le spese di un’organizzazione.
Gli asset invece sono qualcosa che, in futuro, può generare flussi di cassa, ridurre le spese o migliorare le vendite, indipendentemente dal fatto che si tratti di apparecchiature di produzione o di un brevetto.
In questo caso parliamo di: il negozio, gli scaffali, le caramelle, i camion, i contratti coi fornitori, eventualmente i brevetti per nuove caramelle eccetera.
Per Greenblatt è importante investire in aziende sottovalutate e che siano molto redditizie.
A questo punto lui fa un ranking molto intelligente, ma che non ci importa spiegare.
Passiamo allo step successivo: funziona?
Sì.
Greenblatt, indipendentemente dal mio giudizio, ha generato guadagni ottimi per 10 anni e tanto ci deve bastare.
Attenzione: non è tutto rose e fiori! Ci sono articoli che dimostrano fattivamente che la Magic Formula avrebbe sottoperformato in altre situazioni di mercato.
Inoltre Greenblatt probabilmente ci ha messo del suo nel generare performance (talento più che una formula meccanica).
Però non ci deve importare. Il principio funziona ed è ragionevole.
È meglio investire con la Magic Formula che usare l’analisi tecnica, i cicli o i numeri di Fibonacci. Su questo non ci piove.
Però è un approccio sicuramente migliorabile.
Il primo punto importante da approfondire è il ROA.
Ad esempio, puoi dirmi gentilmente qual è il ROA di Facebook o di JPMorgan o di Ford?
È ovviamente una domanda trabocchetto.
Facebook, JPMorgan e Ford hanno ROA completamente diversi tra loro perché sono aziende completamente diverse.
Se per Ford un asset è un’auto, una fabbrica, un progetto, per Facebook è un algoritmo ad esempio. Per JPMorgan è ancora più complicato da capire.
Spesso e volentieri parliamo di asset intangibili. Esistono ma sono difficili da descrivere.
Ah, ma quindi non è utile usare il ROA? Nient’affatto, è utilissimo! Il ROA è uno dei parametri migliori in assoluto per valutare la redditività di un’azienda.
Ci sono due cose importanti da tenere a mente:
– il ROA varia da settore a settore;
– è importante avere in portafoglio anche settori con ROA strutturalmente bassi.
Se il primo punto è facile da comprendere, magari il secondo può confondere.
Che senso ha avere in portafoglio un’azienda con ROA basso? Semplice: ad esempio se un’azienda è molto profittevole ma fa parte del settore bancario, avrà sempre un ROA estremamente basso (spesso sotto 1%), eppure può essere lo stesso in grado di generare rendimenti interessanti.
Un esempio su tutti: J.P.Morgan.
444 miliardi di capitalizzazione, seconda banca d’investimenti al mondo, tra le prime 5 banche al mondo.
Ha un prevedibile ROA di 0,8% (il settore bancario U.S.A. ha un ROA di 0,9%) ma ha generato in 21 anni un CAGR di 15.95%.
Ovvero ha un guadagno medio annuo quasi il doppio dell’S&P500. C’è di meglio? Sicuramente. E comunque l’analisi non è finita, è sciocco fermarsi al ROA.
Però se avessimo valutato solo il ROA ci saremmo privati di molte possibilità di guadagno.
Insomma il ROA è assolutamente essenziale ma bisogna comunque valutare il contesto e non sottovalutare i vantaggi assurdi di un portafoglio diversificato dove non mancano anche le banche.
Un’altra critica? P/E basso sì, ma con la testa.
Alcuni esempi di aziende che hanno generato storicamente performance superiori al 15-16% medio annuo (il doppio dell’S&P500) con P/E che non sarebbero mai rientrate nella Magic Formula:
Però se vediamo i rendimenti in 5 anni di questi 7 esempi, i numeri sono da capogiro: +286% e un CAGR del 30.73%!
Questo è ovviamente un esempio molto specifico che sfocia nel cherry picking più sfrenato però è per farti capire la questione: alcune aziende hanno e avranno sempre P/E molto alti semplicemente perché si trovano in settori con P/E alti.
Però privarsi di una Google o di una Apple per questo motivo sarebbe un errore imperdonabile.
Ma le critiche non sono finite qui: ne manca ancora una. Una critica rivolta non solo a Greenblatt ma anche a tutta la selva di professoroni che si atteggiano a sapienti.
Che senso ha prendere solo gli ultimi valori?
E se Google avesse un P/E di 50 e un ROA di 3% solo per UN trimestre? Magari la media negli ultimi 3-5-10 anni è un P/E di 10 e un ROA di 20%. Non lo consideriamo?
Che assurdità pazzesca! E ci cascano tutti! Un famosissimo professore di Value Investing ha valutate Gamestop sulla base degli ultimi dati, ma in realtà la sua recente storia è molto più sfaccettata.
Sarà semplice pigrizia mentale o ci sarà qualcos’altro dietro?
Insomma, esercitiamo lo spirito critico perché non solo è cosa buona e giusta ma anche perché, semplicemente, ci stimola a migliorarci e in definitiva… A guadagnare di più!
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