Value VS Growth: una distinzione inutile?

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Value VS Growth: una distinzione inutile?

La realtà è un caleidoscopio infinito di dettagli e particolari che rendono ogni elemento unico e diverso da tutti gli altri.

Non esistono due fiocchi di neve uguali, si dice.

Ma la mente umana è limitata e siamo costretti a tentare di ricondurre la realtà a poche categorie, spesso binarie, sia per poterla interpretare che per poterla comunicare agli altri.

Lo stesso linguaggio non è altro che una semplificazione convenzionale intersoggettiva della realtà (reminiscenze universitarie che ogni tanto fanno capolino).

Il mondo dei mercati finanziari, e in particolare di quelli azionari, non fa eccezione.

Anche qui risulta necessario semplificare l’approccio alle migliaia di aziende presenti sui mercati mondiali e così nascono distinzioni più o meno fondate.

In quella più diffusa in letteratura, le azioni si differenziano generalmente in due tipologie: value e growth.

Value

Tipicamente le azioni value sono vecchie, hanno lunghissima storia, distribuiscono dividendi e generalmente fanno parte della “vecchia economia”, ergo non sono value Facebook, Google o Tesla.

Tipicamente sono aziende meno rischiose perché la lunga storia e il modello di business affidabile le rendono “più prevedibili”.

L’investitore Value ricerca il valore intrinseco proprio come farebbe Warren Buffett.

Growth

In genere sono aziende giovani, in settori futuribili come il tech, le energie rinnovabili, il biotech; spesso non distribuiscono dividendi e hanno un P/E alto o molto alto.

Tipicamente sono aziende molto rischiose perché non hanno storia, spesso sono in business nuovi o hanno caratteristiche peculiari. Insomma, si scommette sul futuro senza avere dati passati sufficientemente chiari.

Chi investe in stile Growth scommette sull’esplosione dell’innovazione del modello di business. Prevede un grande studio macro ed è disposto a comprare a P/E anche esorbitanti perché, appunto, scommette sul futuro.

E quindi?

Noi da che parte stiamo?

Come spesso ci succede, da nessuna delle due!

O, meglio, potenzialmente da entrambe.

Possiamo capire come autodefinirsi ad esempio un “value investor” ci dia sicurezza e possa farci sentire dei piccoli Warren Buffett in erba, ma perché dovremmo rinunciare ad aziende straordinarie come Google solo perché non rientrano in una categoria predeterminata?

I suoi asset non saranno tangibili come il metallo che serve a costruire le ferrovie o come un barile di petrolio, ma è innegabile che nell’economia moderna abbiano un valore enorme.

Nel nostro portafoglio poi c’è uno spazio (limitato) appositamente dedicato alle società più giovani e promettenti, che magari hanno poco storico e non possono rispettare i nostri abituali parametri fondamentali, ma sono comunque talmente interessanti da non poter essere ignorate.

Perché a noi interessa investire in aziende sane e profittevoli, nonché diversificare in più settori possibile (sempre col buon senso a fare da guida): che senso avrebbe escluderne alcuni solo perché magari non fanno parte di un elenco apparso su un libro scritto diversi decenni fa?

Viceversa, non rinunceremmo nemmeno ad aziende storiche e stabili, che continuano a produrre utili costanti da decenni, solo perché non sono “cool” e sulla bocca di tutti.

L’approccio BuzWay come sempre è molto “laico” e fa parlare i numeri, non i CEO e i personaggi famosi, per quanto mitici e inarrivabili.

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